venerdì 28 gennaio 2011

NÉ SCHIAVI NÉ DISOCCUPATI


Quanto sta accadendo oggi ai lavoratori e alle lavoratrici della Fiat è la naturale prosecuzione di un lungo e sistematico progetto di cancellazione dei diritti di tutti i lavoratori.
Nel 1990 la Legge 146 cominciò a limitare pericolosamente il diritto di sciopero; poi venne l'abolizione della scala mobile nel 1992; successivamente, l'accordo del 23 luglio '93 sancì l'inizio della concertazione (la logica perversa secondo cui le rivendicazioni dei lavoratori devono essere compatibili con gli obiettivi di produttività e di politica economica aziendale); poi fu la volta del referendum abrogativo dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori del '95 con cui fu assestato un primo duro colpo ai diritti sindacali. Infine, la Legge 30 del 2003 (anche se potremmo citare molti altri accordi schiavisti e liberticidi), proseguendo l'opera nefasta del "pacchetto-Treu", ha imposto il cancro della precarietà come soluzione ai problemi di occupazione del paese.

Purtroppo, la risposta ai pesanti attacchi ai diritti dei lavoratori non è mai stata unitaria e, soprattutto da parte di alcuni settori sindacali, non è mai stata all'altezza della situazione.
Oggi, con la scusa della crisi, viene spianata la strada a Marchionne il quale – con la complicità del padronato italiano, dei sindacati compiacenti e della classe politica – si fa esecutore materiale di un altro violentissimo colpo alla libert&agrav e; dei lavoratori.
Quanto accaduto negli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori è la prova generale di un più ampio disegno criminale teso a mettere in discussione il concetto di lavoro così come lo conosciamo per sostituirlo a pieno titolo con rapporti di schiavitù. Il dissenso non è contemplato né tanto meno tollerato: si smantella il già traballante sistema di rappresentanza sindacale, si criminalizza il lavoratore, lo si ricatta, gli si scaricano addosso responsabilità che non gli appartengono. Non è colpa degli attuali ritmi di produzione, infatti, se le fabbriche chiudono e i padroni delocalizzano, ma è colpa del sistema che – inadatto a garantire una qualità di vita dignitosa per tutti – ha bisogno di inasprire costantemente forme e metodologie di sfruttamento per mantenere se stesso.
I lavoratori che hanno votato SÌ all'accordo lo hanno fatto perché r icattati: senza chiedergli alcunché in merito al contenuto del nuovo contratto, con la minaccia di chiudere la fabbrica in caso di vittoria dei NO, sono stati indotti a credere che non ci fosse nessun'altra via d’uscita per non piombare nell’incubo della cassa integrazione prima, e in quello della disoccupazione poi. Invece, una via d'uscita c'è. Da Mirafiori, a Pomigliano, a Termini Imerese, bisogna farla finita con le burocrazie sindacali rilanciando l'unità dal basso dei lavoratori e l’autorganizzazione come metodi qualificanti per riconquistare i diritti negati, attraverso una rinnovata capacità politica degli sfruttati su vasta scala all'insegna della solidarietà attiva e dell’azione diretta.

La prospettiva non può limitarsi alla conservazione dell'esistente: il capitalismo uccide, e lo dimostra ogni giorno di più. Gli op erai, tutti i lavoratori, i precari, i disoccupati – siano essi italiani o immigrati – possono mettere alla porta i padroni e i politicanti cominciando a fare da sé, occupando i luoghi di lavoro, autogestendo la produzione, riprendendo in mano il loro destino.
Contro questo gioco al massacro chiamato capitalismo, bisogna rilanciare l'azione diretta e l'autogestione, qui e ora, per spezzare le catene e costruire un futuro degno di essere vissuto a chi verrà dopo di noi.

Collettivo Studentesco Antiautoritario
Anarchici Trapanesi
Coordinamento Anarchico Palermitano


sabato 15 gennaio 2011

SOLIDARIETÀ AL POPOLO TUNISINO IN LOTTA

Nelle ultime settimane i paesi del Nordafrica – Tunisia e Algeria su tutti – sono stati incendiati da manifestazioni di piazza e proteste contro il caro-vita e la povertà: le rivolte del pane.
La repressione è stata durissima, soprattutto in Tunisia: decine di morti ammazzati dalla polizia, centinaia di arresti, l’esercito nelle strade, coprifuoco al tramonto.
La Repubblica tunisina risponde con la violenza alle rivendicazioni di un popolo affamato di pane e di libertà.

La crisi economica morde tutti, specialmente i più poveri. Quello che sappiamo della Tunisia si limita spesso alle immagini da cartolina: villaggi vacanze e suggestive visite guidate tra le oasi del deserto. La dura realtà, invece, è quella di un paese economicamente arretrato, specialmente nelle zone interne e meridionali, con un tasso di disoccupazione giovanile altissimo. Nonostante un buon livello di istruzione, i diplomati e i laureati tunisini non riescono a trovare lavoro e sono costretti a emigrare. Sono quegli stessi ragazzi che si imbarcano alla volta dell’Italia, che si umiliano a spaccarsi la schiena nella clandestinità delle leggi razziste e poi finiscono nel mirino della repressione nel nostro paese.

In Tunisia i prezzi dei generi alimentari sono schizzati alle stelle. Per questo è scoppiata la rivolta. Ma in Tunisia c’è anche fame di libertà. Da venticinque anni, infatti, il paese è dominato da una dittatura mascherata da repubblica presidenziale guidata da Ben Alì, un personaggio che tiene in pugno ogni aspetto della vita sociale e politica del paese. In Tunisia non c’è libertà di stampa e di opinione, internet è censurata, la polizia controlla tutto e tutti.
La rivolta del pane e della libertà in Tunisia è anche una rivolta contro la capillare corruzione del sistema, una corruzione che non consente il libero sviluppo delle potenzialità di una società giovane ma senza futuro.

Dopo alcuni giorni di conflitto, sembra che il popolo tunisino abbia ottenuto alcune prime importanti vittorie: Ben Alì ha annunciato il controllo sui prezzi degli alimenti, ha rimosso il ministro dell’interno, ha ordinato il cessate il fuoco, ha promesso libertà di stampa e di opinione, ha promesso che non si ricandiderà alle prossime “elezioni”. Vedremo.

Intanto, i ceti politici e gli organi di stampa europei cercano di criminalizzare la rivolta tunisina agitando lo spauracchio del terrorismo islamico: segno evidente del nervosismo con cui le élites occidentali osservano i fermenti che mettono in discussione i rapporti di forza in questa parte del mondo.
Noi, invece, esprimiamo tutta la nostra solidarietà internazionalista alle donne e agli uomini che in Tunisia, e in tutto il Maghreb, stanno lottando per il pane e la libertà, per la dignità e il futuro. Le lotte dei popoli sono anche le nostre lotte: contro gli stati, contro i governi, contro i padroni, per la rivoluzione sociale oltre ogni frontiera.

Coordinamento Anarchico Palermitano