Prima di tutto, esprimiamo la nostra completa solidarietà ai compagni tornati in libertà. Siamo felici che, dopo i fatti dell’Umberto I, Cesare, Francesco e Ruggero siano di nuovo tra noi.
Il significato del provvedimento con cui l’operato della polizia di Palermo viene sostanzialmente sconfessato, non può e non deve essere frainteso.
Il restringimento degli spazi di libertà e dell’agibilità democratica in Italia è un processo che va avanti ormai da parecchi anni.
In questo clima di crescente repressione del dissenso, anche a Palermo l’approccio poliziesco si è allineato a una tendenza già ampiamente collaudata in altre città d’Italia dove il conflitto sociale e la capacità aggregativa dei movimenti di opposizione sono di gran lunga superiori.
A gennaio scorso, le cariche e gli arresti davanti il Laboratorio Zeta costituirono un primo significativo salto di qualità della repressione in città. Oggi, perfino un volantinaggio diventa un pretesto per far scattare le manette e lanciare una chiara intimidazione al movimento. Poco importa se, a cose fatte, la magistratura sanziona l’oggettiva enormità dei provvedimenti: la provocazione è già consumata.
Ma è stato altrettanto grave che nei due giorni di mobilitazione a sostegno dei detenuti, tutte le proposte che andavano nella direzione di una più aperta visibilità della protesta sono state sistematicamente boicottate. Chi oggi millanta particolari meriti per la liberazione dei detenuti, fino a ieri pretendeva che neanche un megafono disturbasse il giudice intento a emettere il suo provvedimento. Un atteggiamento che tradisce l’incondizionata fiducia da parte dei barricaderi di professione nelle regole dello stato di diritto, nella legalità dal volto umano, nelle potenzialità democratiche dei poteri dello stato e finanche delle forze di polizia.
Questa constatazione rimanda immediatamente alla responsabilità a cui ciascuna realtà politica e ciascun individuo sono chiamati nel momento in cui il livello politico dello scontro si alza in maniera esponenziale. Una responsabilità che non può essere disattesa né prima, né durante, né dopo qualunque iniziativa militante.
Regalare energie e risorse alla repressione è un lusso che non ci si può permettere. Sarebbe molto più utile, invece, impiegare ogni sforzo per costruire conflitti reali che minino alla base il consenso sui cui poggiano i poteri forti di questa città.
Di qui la necessità di comprendere quanto sia determinante abbandonare qualunque compromissione con la politica istituzionale assumendo il problema della difesa politico-giuridica del movimento (da noi sollevato in tempi non sospetti e puntualmente ignorato) in maniera concreta ed efficace.
Perché se oggi la magistratura scarcera, domani potrebbe sbatterci dentro e buttare via la chiave. Lavorare per evitare una prospettiva del genere o per saperla affrontare adeguatamente, è una priorità alla quale nessuno dovrebbe sottrarsi.
Coordinamento Anarchico Palermitano
Il significato del provvedimento con cui l’operato della polizia di Palermo viene sostanzialmente sconfessato, non può e non deve essere frainteso.
Il restringimento degli spazi di libertà e dell’agibilità democratica in Italia è un processo che va avanti ormai da parecchi anni.
In questo clima di crescente repressione del dissenso, anche a Palermo l’approccio poliziesco si è allineato a una tendenza già ampiamente collaudata in altre città d’Italia dove il conflitto sociale e la capacità aggregativa dei movimenti di opposizione sono di gran lunga superiori.
A gennaio scorso, le cariche e gli arresti davanti il Laboratorio Zeta costituirono un primo significativo salto di qualità della repressione in città. Oggi, perfino un volantinaggio diventa un pretesto per far scattare le manette e lanciare una chiara intimidazione al movimento. Poco importa se, a cose fatte, la magistratura sanziona l’oggettiva enormità dei provvedimenti: la provocazione è già consumata.
Ma è stato altrettanto grave che nei due giorni di mobilitazione a sostegno dei detenuti, tutte le proposte che andavano nella direzione di una più aperta visibilità della protesta sono state sistematicamente boicottate. Chi oggi millanta particolari meriti per la liberazione dei detenuti, fino a ieri pretendeva che neanche un megafono disturbasse il giudice intento a emettere il suo provvedimento. Un atteggiamento che tradisce l’incondizionata fiducia da parte dei barricaderi di professione nelle regole dello stato di diritto, nella legalità dal volto umano, nelle potenzialità democratiche dei poteri dello stato e finanche delle forze di polizia.
Questa constatazione rimanda immediatamente alla responsabilità a cui ciascuna realtà politica e ciascun individuo sono chiamati nel momento in cui il livello politico dello scontro si alza in maniera esponenziale. Una responsabilità che non può essere disattesa né prima, né durante, né dopo qualunque iniziativa militante.
Regalare energie e risorse alla repressione è un lusso che non ci si può permettere. Sarebbe molto più utile, invece, impiegare ogni sforzo per costruire conflitti reali che minino alla base il consenso sui cui poggiano i poteri forti di questa città.
Di qui la necessità di comprendere quanto sia determinante abbandonare qualunque compromissione con la politica istituzionale assumendo il problema della difesa politico-giuridica del movimento (da noi sollevato in tempi non sospetti e puntualmente ignorato) in maniera concreta ed efficace.
Perché se oggi la magistratura scarcera, domani potrebbe sbatterci dentro e buttare via la chiave. Lavorare per evitare una prospettiva del genere o per saperla affrontare adeguatamente, è una priorità alla quale nessuno dovrebbe sottrarsi.
Coordinamento Anarchico Palermitano